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Insieme riscriviamo la storia!

speranza

Sette Procure, un solo crimine: la ‘vigile attesa’ di Speranza sotto accusa

Di Carmen Tortora

Ci sono voluti anni di lutto sommerso, di silenzi masticati a denti stretti, di solitudini congelate nelle stanze d’ospedale e nelle camere da letto diventate camere mortuarie. Ci sono voluti figli senza genitori, mogli senza mariti, madri senza figli. Ci è voluta la forza disperata di chi non poteva più essere complice del silenzio. E così, ora, sette Procure della Repubblica – troppo tardi, troppo a rilento – provano a gettare uno sguardo nell’abisso che fu la gestione criminale della pandemia.

Quel protocollo infame, “tachipirina e vigile attesa”, non fu l’errore di un momento, né il frutto di una confusione iniziale. Fu una strategia scientificamente studiata, lucidamente ribadita mentre intorno la gente soffocava nei propri letti. Una strategia che portava la firma sicura di Roberto Speranza, il ministro che elevò l’inazione a dogma, che tramutò la medicina di cura in medicina di osservazione passiva, in una folle parodia dell’arte di salvare vite. Accanto a lui, il suo vice Sileri, e i vertici dell’Aifa, custodi e garanti di un dogma assurdo che vietava ai medici perfino l’uso di antinfiammatori, come se curare fosse diventato reato.

Mentre il mondo intero sperimentava terapie domiciliari, mentre ovunque si tentava di spegnere l’incendio prima che divampasse, l’Italia issava barricate contro ogni cura precoce. Le circolari ministeriali non lasciavano scampo: ai primi sintomi, non intervenire; somministrare un analgesico e sperare. O meglio: attendere, vigili, che la febbre montasse, che i polmoni si saturassero di liquido, che il virus avanzasse indisturbato. In quella veglia forzata c’era tutta la brutalità di un potere incapace o disinteressato a salvare vite.

Ora, i pubblici ministeri raccolgono i detriti di quell’abominio. Raccolgono cartelle cliniche macchiate dal dolore, messaggi di aiuto rimasti senza risposta, testimonianze che parlano di giorni interminabili passati ad aspettare il peggio. A Roma, il pm Orano apre il fascicolo che potrebbe – il condizionale resta d’obbligo – incriminare Speranza, Sileri e i vertici Aifa. In quel faldone non ci sono solo procedure e circolari: ci sono i volti dei morti. Le storie di chi poteva essere salvato, ma è stato consegnato, coscientemente, alla furia del virus.

Sotto accusa, la scelta ideologica, la rigidità fanatica di chi trasformò il Covid in una questione politica prima ancora che sanitaria. Nessun errore in buona fede. Nessuna incertezza di guerra. Solo la volontà ostinata di negare ogni alternativa alla vaccinazione di massa, anche a costo di sacrificare chi si poteva curare. Anche a costo di lasciare la gente sola a morire.

È amaro constatare che, ancora una volta, non è lo Stato ad aver cercato la verità.Non sono le istituzioni che avrebbero dovuto tutelare il popolo ad aver acceso i riflettori. Sono i familiari delle vittime, i sopravvissuti morali, coloro che hanno raccolto i pezzi dei propri cari e li hanno portati davanti ai tribunali come si portano le reliquie di una strage mai riconosciuta.

Eppure, anche ora, mentre i fascicoli si aprono e i titoli di giornale si riempiono di promesse di giustizia, resta nell’aria la puzza amara della beffa. Sappiamo già che questo sistema sa proteggere i suoi sacerdoti.Che la lentezza, l’indifferenza, la nebbia della burocrazia potranno ancora una volta diventare alleati preziosi per insabbiare ogni cosa. Sappiamo che nessuna inchiesta, per quanto sincera, potrà restituire il respiro strappato a chi è stato lasciato morire col saturimetro in mano.

Nel frattempo, Roberto Speranza sfila nei salotti televisivi con l’aria compassata del tecnico che “fece ciò che era necessario”. Con l’invisibile corazza dell’impunità cucita addosso da un sistema che ha fatto del “nessuno è responsabile” il suo dogma eterno.

Eppure, qualcosa si muove. Non nei tribunali, forse. Non nei palazzi del potere. Ma nella memoria collettiva che non ha dimenticato. Nella rabbia che ancora brucia sotto la cenere dell’indifferenza. Nella consapevolezza di chi ha visto, di chi sa, di chi porterà per sempre impressa nella carne viva il marchio di questa infamia.

Se la giustizia umana sarà, come sempre, parziale, tardiva e forse mai pienamente compiuta, resta la condanna della storia. Resta l’accusa scritta nel sangue di chi non c’è più: non avete sbagliato, avete scelto.

E nessun oblio potrà cancellare questo crimine.