«Il diritto all’ultimo abbraccio» – La sentenza di Novara che restituisce dignità al lutto negato. Ci sono ferite che non sanguinano, ma lasciano cicatrici più profonde di qualsiasi taglio. Ferite fatte di silenzi forzati, di mani che restano sospese dietro un vetro, di parole mai dette. È di queste ferite che parla la sentenza del Tribunale di Novara: un atto di giustizia che arriva tardi, ma arriva come un gesto di umanità in un tempo che di umano aveva perso quasi tutto.
Era il 20 gennaio 2021. L’Italia era ancora stretta nella morsa del panico, delle ordinanze, delle linee guida disumane che trasformavano gli ospedali in fortezze e le case di cura in zone d’ombra. Quel giorno, alle 14.12, una donna ricevette una chiamata: suo marito, ricoverato in RSA, stava morendo. Alle 14.30 era già finita. Diciotto minuti. Il tempo di percorrere pochi chilometri, di varcare una porta, di scoprire che quella porta non si sarebbe più aperta.
Per settimane, la donna aveva potuto fargli visita due volte, brevi momenti concessi con la stessa parsimonia con cui si distribuisce un privilegio, non un diritto. Ma quel giorno, quando la vita stava per spegnersi, la ragione sanitaria aveva avuto la meglio su tutto: sulla pietà, sulla logica, sulla legge non scritta che regge la convivenza umana – quella dell’amore.
Sentenza Novara: il tribunale riconosce il “danno da commiato”
La coppia, unita da cinquant’anni, non aveva figli né religione a cui appigliarsi. Avevano solo loro due, e quel tempo insieme che la burocrazia ha spezzato con un «no» sussurrato al telefono. È in quel vuoto, in quel silenzio che il giudice Giuseppe Siciliano ha riconosciuto qualcosa che nessun decreto aveva previsto: un danno da commiato.
Un concetto giuridico nuovo, ma morale da sempre. Perché se è risarcibile la vacanza rovinata, come ricorda il giudice, allora lo è infinitamente di più la negazione del diritto a salutare chi amiamo. È la prima volta che un tribunale riconosce esplicitamente l’eccesso di potere di una struttura sanitaria nel negare un ultimo incontro, e lo fa con parole che restituiscono dignità a migliaia di lutti soffocati nel gelo delle procedure.
Non si tratta di denaro – perché nulla può ripagare un addio mancato – ma di memoria, di riconoscimento. È un atto che riapre la porta al senso del limite, che ricorda come il potere amministrativo non possa mai oltrepassare il confine della coscienza.
Durante la pandemia, il dolore era stato sospeso, classificato, archiviato sotto la voce “sicurezza”. Si moriva da soli, si piangeva da soli, si seppelliva da soli. Il lutto, che per secoli è stato rito collettivo, catarsi, comunità, era diventato un evento privato, negato, burocratizzato. E in quella negazione si era insinuata una nuova forma di disumanità: la convinzione che tutto, anche la morte, potesse essere regolato da un protocollo.
Rivoluzione silenziosa
La sentenza di Novara infrange quella convinzione. Dice, con la voce della legge, ciò che il cuore aveva gridato invano: che il diritto di dire addio è parte integrante della dignità umana. Che nessuna emergenza, per quanto reale, può giustificare la cancellazione dell’ultimo gesto d’amore.
Dietro le parole giuridiche – eccesso di potere, danno da commiato, risarcimento – si nasconde una rivoluzione silenziosa. È il riconoscimento che la libertà non è solo poter uscire, muoversi, lavorare, ma anche poter amare fino alla fine. Che la cura non è solo igienica, ma relazionale; non è solo sanità, ma umanità.
Questa decisione non riguarda solo una donna e suo marito. Riguarda tutti noi, i nostri lutti sospesi, i messaggi non inviati, gli occhi che non abbiamo potuto chiudere. Riguarda un intero Paese che, nel nome della salute, ha sacrificato la compassione.
La giustizia, in questo caso, ha avuto il coraggio di guardare indietro e dire: abbiamo sbagliato. E nel farlo, ha restituito senso al dolore di migliaia di persone che si erano sentite fantasmi nella propria tragedia.
Forse, per la prima volta dopo anni di negazioni, qualcuno ha ricordato che l’essere umano non è solo corpo da proteggere, ma anima da accompagnare. Che il morire non è un atto clinico, ma un momento sacro, e che negare la presenza di chi ama è negare la stessa essenza della vita.
Nel silenzio di quella stanza d’RSA, dove la morte arrivò senza mani da stringere, la storia sembrava finita. E invece, con questa sentenza, comincia un’altra storia: quella della dignità che torna a essere un diritto, non una concessione.
Forse è tardi, ma almeno oggi la legge ha pronunciato ciò che il cuore sapeva da sempre:
nessuna distanza, nessun decreto, nessuna paura può separare chi si è amato per una vita.
E in quel riconoscimento, minuscolo ma immenso, l’Italia ritrova per un attimo la sua umanità perduta.
“La morte negata”, il documentario di Playmastermovie
Durante lo stato di emergenza covid le linee guida e i protocolli sanitari imposti dal governo, hanno impedito ai familiari, di seguire la degenza in ospedale dei propri cari, in molti casi di comunicare telefonicamente e di poter vedere il corpo del defunto in quanto riconsegnato in un sacco nero.
Ciò ha contribuito ad interrompere il fisiologico processo di elaborazione del lutto con grandi sofferenze e gravi ripercussioni psicologiche. A distanza di anni questo lutto negato incontra tutt’ora un muro di silenzio e omertà che questo documentario si propone di infrangere.